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Suono e immagine ai tempi della psichedelia sperimentale

Aggiornamento: 9 gen 2021

La storia dei visual abbinati alla musica sperimentale è un territorio tutto da esplorare e, probabilmente, se la conoscessimo di più potremmo vivere una condizione di maggior libertà nella costruzione dei nostri giudizi e nella lettura critica di quanto ci viene oggi offerto.



Il pubblico di Vortex al Morrison Planetarium. Foto: California Academy of Science.

La pratica di accompagnare i concerti di musica elettronica a proiezioni di filmati o manipolazioni di immagini in tempo reale è ormai una normale prassi: l'opera visiva può essere parte fondante dell'espressione musicale o consistere di una semplice collezione di immagini più o meno evocative.


Non ho niente contro i visual ma, quando vengono proiettati filmati durante un concerto, ho talvolta il sospetto che il musicista abbia sentito il desiderio di impiegare il mezzo visivo sotto il peso di una forte insicurezza, come se l'unico scopo della visione fosse quello di meglio indirizzare lo spettatore verso l'ambiente emotivo ricercato, come se la musica da sola non fosse in grado di sviluppare il racconto.


Oggi vorrei raccontarti un affascinante episodio parte di questa storia: la stagione dei concerti Vortex iniziata al planetario di San Francisco nel 1957 e proseguita sino al 1959. Dal programma di Vortex 4:


“Vortex è una nuova forma di teatro basata sulla combinazione di elettronica, ottica e architettura. Gli elementi di Vortex sono suono, luce, colore e movimento nella loro espressione più teatrale e onnicomprensiva. Queste combinazioni audiovisive sono presentate in un teatro circolare a cupola grazie a speciali proiettori e sistemi di diffusione. In Vortex non c'è separazione tra pubblico, schermo e palco; l'intera area della cupola diviene un teatro vivente di suono e luce”.


La parte visiva dell'opera fu creata dal cineasta sperimentale Jordan Belson mentre la parte musicale prevedeva una serie di 38 concerti curati da Henry Jacobs e dal Vortex Group, gruppo riconosciuto da John Cage in una lettera a Peter Yeats del 1960 come uno dei più rappresentativi della musica sperimentale della decade 1950-1960.




L'obiettivo dei concerti acusmatici e delle dimostrazioni live del Vortex Group era di portare nella Bay Area una selezione della miglior musica elettronica ed elettroacustica composta per nastro magnetico. Tra gli artisti presentati: Karlheinz Stockhausen (Gesang der Jünglinge), Vladimir Ussachevsky (A Piece for Tape Recorder), Luciano Berio (Omaggio a Joyce), Gyorgy Ligeti (Artikulation), Bruno Maderna (Continuo), Luc Ferrari (Etude aux Sons Tendus). La programmazione musicale non si limitò a proporre solo i suoni del fiero Occidente ma sconfinò in Giappone, facendosi più esotica con l'inclusione di Gamelan balinesi e di ritmi afrocubani.


Come dichiarato nel programma di Vortex 3, il nome della manifestazione traeva origine dal sistema circolare di 38 diffusori da cui si irradiava il suono, un sistema che dava la possibilità di poter muovere la musica attorno alla cupola del planetario in senso orario e antiorario a qualsiasi velocità, dando vita a una nuova concezione di esperienza aurale.




Riconosciuto come uno dei padri della proto-psichedelia assieme a John e James Whitney, Jordan Belson aveva iniziato a creare film sperimentali negli anni Quaranta; la tecnica di Belson prevedeva l'azione diretta sulla celluloide attraverso pigmenti, perforazioni della superficie della pellicola e dell'emulsione per esplorare soggetti metafisici.


In Vortex le manipolazioni dei film duravano tra gli otto e i dieci minuti e prevedevano l'esecuzione di partiture scritte con pastelli fluorescenti che potevano essere lette con l’impiego di luci ultraviolette. L’oscurità del planetario con la sua cupola di 65 piedi di diametro accoglieva stratificazioni di spettacolari pattern astratti, effetti luminosi e immagini che evocavano lo spazio. Il tema delle stelle, dei pianeti e delle galassie fu tra le principali ispirazioni di Belson:



“Avevo una fotografia di una bellissima galassia che misi dove potevo vederla di frequente. Quell'immagine mi fece riflettere moltissimo e mi insegnò tanto sull'universo e la vita umana... Cominciai a sviluppare una coscienza galattico-centrica che si andò a sostituire a quella geocentrica... ebbi la sensazione di percepire una visione più grande delle cose”.


L'estrema oscurità degli ambienti impedì di realizzare testimonianze visive degli eventi. Belson descrisse l'esperienza così:


“Se entravi nello spazio buio a spettacolo già iniziato, guardando in alto non riuscivi a vedere nulla. Ma la gente che era già nel teatro da un po' aveva gli occhi abituati all'oscurità e poteva vedere immagini davvero vivide e brillanti. Lo spazio era perfetto per il nostro spettacolo, con le sue pareti lisce e la perfetta semisfera della cupola da cui le immagini parevano colare sui muri perimetrali. I proiettori, controllati da telecomandi, erano estremamente silenziosi e l'assenza di fumo impediva di intuire la posizione delle sorgenti delle immagini. Si potevano creare sensazioni terribilmente meravigliose. Starsene lì era un'esperienza sacra. L'intero teatro era un perfetto strumento”.


Allures, successivo lavoro di Belson del 1961 con musica di Henry Jacobs, accolse molte delle tecniche sviluppate durante le stagioni di Vortex e può quindi restituire un'idea di come dovessero apparire le immagini in movimento:


“Una combinazione di strutture molecolari ed eventi astronomici mescolati a fenomeni soggettivi del subconscio, il tutto in accadimento simultaneo... Un viaggio a ritroso dalla materia allo spirito”.


Lo stesso respiro può essere colto in Seance, corto del 1959 con musica di Pierre Schaeffer, anch'egli conosciuto grazie agli eventi Vortex.


Per riappropriarci della storia del fallimento sarà necessario ricordare che il progetto Vortex fu accolto dall'Expo di Brusselles nel 1959 e fu un completo disastro. Per quanto d'ispirazione per alcuni artisti – Else Marie Pade vi trasse l'idea per il suo Seven Circles – l'evento ebbe esiti seriamente negativi: la tecnologia a disposizione non era lontanamente vicina a quella impiegata negli Stati Uniti e il planetario in sé era così rudimentale da essere descritto da Belson come il “laboratorio del Dottor Frankenstein”. L'inadeguatezza tecnologica e logistica sabotò la riuscita degli spettacoli che furono conseguentemente rifiutati dai planetari di Parigi e Mosca.


Al termine del progetto, Belson si arrese all'impossibilità di guadagnarsi da vivere con il cinema sperimentale e accettò un impiego in una fabbrica di buste. Ci lavorò per tre anni, prima di ricevere il primo finanziamento a sostegno della sua carriera artistica dalla Ford Foundation...




 


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Per saperne di più


Il libro consigliato:

Scott Mac Donald, A Critical Cinema 3. Interviews with Independent Filmmakers, University of California Press, Berkeley&Los Angeles 1998 [principale fonte di questo articolo e delle sue citazioni]




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